Storia - Le principali norme dello statuto del 1358

Ben più noto rispetto a quello del 1313, perché oggetto di qualificati studi e pubblicato a stampa, lo statuto del 1358, adottato congiuntamente dalle Valli Taleggio e Averara, è frutto del lavoro di una commissione di esperti e di notabili delle due vallate i quali, benché fieramente divisi nelle opposte fazioni guelfa e ghibellina, riuscirono tuttavia a darsi delle regole amministrative assai rigorose ed efficaci, che rimasero in vigore anche durante il lungo periodo della dominazione veneta e fino alla fine del Settecento. Dello statuto del 1358 ci sono pervenute una quindicina di redazioni manoscritte, le prime in latino, quindi dalla metà del Quattrocento, in volgare lombardo-veneto e poi in italiano. Il più antico codice che si conosca risale alla seconda metà del Trecento ed è conservato presso la Biblioteca Vaticana, raccolto nello stesso volume in cui è contenuta la redazione dello statuto del 1313. Ne esistono altri cinque risalenti al Quattrocento, due di epoca cinquecentesca, cinque del Seicento e tre del Settecento. Il documento si suddivide in 112 capitoli che trattano delle materie più disparate e investono un po’ tutti gli aspetti della vita sociale, del diritto pubblico e privato e della polizia urbana e rurale. Una serie di articoli regolano i rapporti economici e i diritti di proprietà e puniscono chi non rispetta i beni altrui. Viene regolamentata la vendita del pane e del vino: pesi e misure dovevano essere bollati e gravi multe erano previste per chi ricorreva a sofisticazioni. I contratti dovevano essere stipulati nel rispetto di precise norme e i debitori insolventi rischiavano la prigione. Tutti avevano l’obbligo della solidarietà in occasione di calamità naturali: i rintocchi delle campane a martello chiamavano a raccolta i cittadini per far fronte a disgrazie, incendi e invasioni.

Le principali norme dello statuto del 1358

Lo statuto dedica ampio spazio ai rapporti familiari e interpersonali: “Il padre possa correggere un figlio cattivo, non sol colle mani, o con uno stafile, ma ancora con un bastone, ed anche farlo carcerare se si diporta male, e spende malamente la roba del padre o propria, o è dedito alle risse (...) Nel modo stesso possano i mariti battere le mogli, del corpo delle quali son padroni, se non stanno in casa con la dovuta onestà. Così i maestri possano battere e punire i discepoli, ossia scolari, un fratel maggiore il fratel minore. Il concubinario possa battere la sua concubina, purché non vi sia effusione di sangue, o rottura di qualche osso; e così pure il padrone possa battere il suo bifolco o famiglio o custode di bestiame”. Risulta evidente come i rapporti familiari fossero improntati al potere quasi assoluto del maschio e del capofamiglia, mentre per la donna erano ancora molto lontani i tempi dell’emancipazione. Ciò è confermato anche da altre norme: “Se qualche uomo commetterà adulterio, oppure farà violenza o molestia ad alcuna donna e così la conoscerà carnalmente, paghi ogni volta al comune cento lire di pena, e se sarà maritata, o sua parente, centocinquanta lire”. Minima era invece la pena se la donna era consenziente: solo cinque lire. E se poi la donna presa con la forza non era onesta (il giudizio spettava al vicario), la pena per l’uomo era ridotta a dieci lire. Era addirittura previsto un premio ai delatori, cioè a chi denunziava il reato d’adulterio, che veniva ricompensato con un sesto della penale. Per i colpevoli d’omicidio era previsto il bando perpetuo, oltre alla multa di mille lire e alla confisca di tutti i loro beni. E chi fosse incappato nelle forze del comune, sarebbe stato condotto “al luogo della giustizia ed ivi le sia troncata la testa dalle spalle sicché interamente muoia”. Era ammessa la tortura, anche se solo per determinati crimini. “… al caso che fosse persona infame, o fosse incolpata di moneta falsa, o di omicidio, o d’incendio, o di rubbamento alla strada, o di scrittura falsa, o di testimonio falso o di aver dato ricovero a ladri o robe rubbate”. Era severamente proibito il gioco d’azzardo ed era vietato portare armi, ingiuriare il prossimo ed augurargli malattie o sventure; tuttavia le risse erano frequenti e punite dalle norme statutarie: “Se qualche persona ferirà un’altra e ne uscirà sangue, paghi per pena al comune cento soldi per ogni ferita e se poi alcuno darà qualche schiaffo o pugno sul volto, sia punito in sessanta soldi”.