Storia - Santa Brigida e la peste del 1630

Una delle esperienze più tragiche vissute da Santa Brigida nel corso della sua storia fu la peste bubbonica del 1630, talmente funesta da dimezzare gli abitanti del paese. L’epidemia fu preceduta da una terribile carestia che imperversò per due stagioni, debilitando il fisico delle persone e predisponendole al rischio del contagio che sarebbe scoppiato subito dopo e che si diffuse nella Bergamasca già nell’autunno del 1629, portato in Italia dalle truppe tedesche impegnate nella guerra di successione al ducato di Mantova.

Tentativi di scongiurare il diffondersi del contagio
Non appena in Valle Brembana si ebbero le prime avvisaglie del morbo, si provvide ad attivare alcuni controlli preventivi. Furono posti presidi al ponte di Sedrina, al passo San Marco e alle altre vie di comunicazione con le terre limitrofe e all’ingresso di ogni paese vennero poste delle barriere per impedire il passaggio agli estranei. Col sopraggiungere dell’inverno sembrò che il rischio di diffusione del contagio fosse stato scongiurato, ma nella primavera del 1630 il morbo si diffuse con estrema virulenza nel settore occidentale della provincia, proveniente dalla Val San Martino, e poi cominciò a mietere vittime in città. Ben presto, malgrado i controlli, la peste penetrò in Valle Brembana, portata dai molti che cercavano di fuggire dalle zone infette della città e della pianura o provenivano dalla Valtellina e dalla Valsassina, a loro volta già in preda al contagio. Senza contare i tanti che, sottovalutando il pericolo ed eludendo la sorveglianza, continuavano a recarsi a Bergamo per affari.

Santa Brigida e la peste del 1630

Il voto contro la peste
Non appena fu chiaro che la peste stava per arrivare anche a Santa Brigida, il parroco Giovanni Battista Bottagisi e i capifamiglia si riunirono sul sagrato della chiesa e fecero voto di celebrare in perpetuo come festivi i giorni dedicati a San Rocco e San Nicola da Tolentino, se fossero stati scampati dal male. L’atto, rogato il 21 maggio 1630 dal notaio Pietro fu Melchiorre Manganoni di Carale, alla presenza di quasi tutti i capifamiglia della parrocchia, costituisce un documento assai interessante per ricostruire l’atmosfera che si respirava allora in paese, nell’imminenza di un flagello di cui si conoscevano già i funesti effetti. I presenti, dopo aver dichiarato di essere più dei due terzi dei capifamiglia della parrocchia e di agire anche a nome degli assenti, fecero voto di “di osservare e santificare in perpetuo e celebrare le feste dei santi Rocco e Nicola da Tolentino, astenendosi da ogni lavoro manuale e da altre occupazioni illecite, partecipando alla messa e osservando ogni altro precetto della chiesa, sotto pena di peccato mortale. E inoltre, di digiunare e astenersi dai cibi proibiti in detti giorni, analogamente alle altre feste di precetto”.

La diffusione del morbo
Agli inizi di giugno, favorita dall’incipiente caldo estivo, la peste cominciò a mietere vittime anche a Santa Brigida. Il male si manifestava con febbre alta e forti dolori di capo a cui seguiva la comparsa di bubboni sul collo, sotto le ascelle e all’inguine e di vesciche purulente diffuse su tutto il corpo. Nella maggior parte dei casi la malattia era fulminante e portava alla morte nel giro di tre o quattro giorni; a volte l’esito letale sopraggiungeva dopo un tempo più lungo e assai rari erano i casi di guarigione. In Valle Averara era stato aperto un lazzaretto nel quale venivano ricoverati gli ammalati meno gravi che erano sottoposti a cure empiriche e per niente efficaci, ma potevano almeno godere di una certa assistenza. Tra giugno e settembre il morbo infuriò con tale virulenza, che divenne impossibile dare sepoltura nel cimitero (cioè sotto il pavimento della chiesa, del portico e del sagrato) di tutti i cadaveri. Inoltre il fetore e le esalazioni che provenivano dai luoghi soliti delle sepolture erano insopportabili, oltre che veicoli di maggiore contagio, per cui in ottemperanza alle direttive dell’Ufficio di Sanità di Bergamo si cominciò a seppellire i morti in una grande fossa comune, scavata nei pressi della chiesa, forse nello stesso luogo sopra il quale nel 1747 sarà eretta la cappella ossario abbattuta solo nel corso del Novecento. Qui i cadaveri venivano gettati uno sopra l’altro e ricoperti di calce viva, dopo un funerale sommario, senza la solita cerimonia in chiesa, ma alla sola presenza di un sacerdote e dei necrofori.

Il numero delle vittime a Santa Brigida e in Valle Averara
Secondo i dati forniti dallo storico Lorenzo Ghirardelli i morti di peste a Santa Brigida furono ben 152 su un totale di 252 abitanti, cioè il 60 per cento della popolazione. Non meno colpite furono le altre località della Valle Averara dove si ebbero in totale 712 morti su 1516 abitanti. La peste fu un evento tremendo che distrusse famiglie intere e rischiò di cancellare ogni attività umana. Per quanto non esistano documenti al riguardo, è assai probabile che tra le vittime sia da annoverare anche il parroco Bottagisi, il quale figura sostituito nel 1631 da Giacomo Perlini, già parroco di Valtorta. Una testimonianza tangibile dei devastanti effetti del morbo è ancora oggi riscontrabile nell’affresco effigiato su una casa di Bindo. Si tratta di un ex-voto raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Rocco e Sebastiano. Dall’iscrizione si apprende che il committente, Giovanni Maria Manganoni, era l’unico superstite della sua famiglia, avendo perduto il padre, il nonno e tutti i parenti. Con la fine dell’estate la virulenza del male cominciò a diminuire, per cessare del tutto con l’autunno. E finalmente i superstiti poterono riprendere, seppur a fatica, la vita normale.

Santa Brigida e la peste del 1630

I testamenti della peste
Di particolare interesse sono i testamenti venivano dettati da persone colpite dalla peste e ridotte in fin di vita. Anche a Santa Brigida furono molte le persone che provvidero a dettare le loro volontà in quei terribili frangenti. Tra tanti ne segnaliamo tre, sono rogati dal notaio Pietro Manganoni che raccolgono le ultime volontà di tre donne abitanti a Bindo. La prima, Giovannina figlia di Guerino Regazzoni e vedova di Maffeo Rivellini di Bindo, “sana di mente, vista e intelletto, ma gravata nel corpo”, fa testamento il 19 agosto con rito abbreviato, cioè “senza scritti e solennità di parole”. Il 10 e il 12 settembre è la volta rispettivamente di Elisabetta vedova di Michele Rivellini, abitante a Bindo e di sua figlia Maria. Entrambe risultano in gravi condizioni di salute e lasciano parte dei loro modesti beni alla parrocchia. Per inciso, da questi atti si apprende che nel corso dell’estate erano morti anche Michele Rivellini e suo figlio Maffeo, che figurano tra i cittadini presenti al voto del 21 maggio. Maggiore interesse riveste il testamento di Cristina Rota della Pianca, vedova di Francesco Borsotti. Nell’atto, rogato alla Pianca il 28 ottobre 1630, la Rota è detta “inferma del corpo del morbo pestilenziale” e lascia diversi beni alle chiese della Pianca e di Santa Brigida. A quest’ultima assegna l’usufrutto di 800 lire ad integrazione di un legato disposto a suo tempo dal marito per far celebrare una messa alla settimana in perpetuo.